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STORIA DI PROCIDA

3.

GIOVANNI DA PROCIDA

Uno dei protagonisti più importanti del conflitto angioino-aragonese per il dominio del regno meridionale, fu Giovanni da Procida

 

 


I primi feudatari di Procida furono ''i de Procida'', poi detti ''i Procida'' il cui rappresentante più famoso fu Giovanni da Procida. Nacque a Salerno verso il 1210 e studiò scienze politiche e medicina. Sui trent'anni entrò come medico al sevizio di Federico II, che gli donò feudi tolti ai ribelli, tra i quali Procida. Divenne tutore del piccolo Manfredi, figlio di Federico e fu a lui che l'imperatore, due giorni prima della sua morte, il 13 dicembre 1250, dettò il suo testamento. Successivamente divenne il consigliere più stretto di Manfredi, che lo nominò Gran Cancelliere del Regno.

Morti Manfredi e Corradino, si legò a Pietro III d'Aragona diventando il costruttore tenace di una politica di alleanze, che sfruttando abilmente la rivolta del Vespro condusse gli Aragonesi ad occupare la Sicilia sottraendola agli angioini. Tentò poi, senza riuscirvi, di guadagnare anche il resto del Regno, suscitando la rivolta in Calabria, a Napoli e a Gaeta. Carlo I d'Angiò e poi il figlio Carlo II lo ricambiarono estromettendolo da Procida e dagli altri feudi. In seguito la Sicilia, grazie anche alla sua opera incessante, verrà assegnata al figlio minore di Pietro III d'Aragona, Federico. Con l'aiuto delle armi siciliane riconquisterà il suo feudo nel 1286. Morirà vecchissimo nel marzo del 1299, appena in tempo per evitare di essere nuovamente spossessato da Carlo II. Il figlio minore di Giovanni da Procida, Tommaso, passò con gli angioini e fu quindi reintegrato nel possesso del feudo da Carlo II.

Giovanni da Procida fu una delle personalità più complesse e lungimiranti del tredicesimo secolo. Il suo disegno politico, riuscito solo parzialmente, fu la costruzione nel Sud di una monarchia nazionale, forte, autonoma e indipendente, svincolata dalla soggezione all'impero e al papato.


Proprietà di un feudatario del tredicesimo secolo.

Il Procida possedeva sull'isola più della metà di tutte le proprietà, buona parte del Castello. I frutti, i proventi, le rendite, che ogni anno, a Natale e a Pasqua, gli erano dovuti da sessantanove vassalli e da contadini che gestivano suoi fondi, ammontavano a sessanta oncie. Le terre erano piantate a vite, greca e latina, querce, ulivi. Tra i suoi beni immobili figuravano dodici moggia di miglio dal valore di tre once, venti sacchi di sparta, millecinquecento quadrelli (frecce), oltre duemila aste di quadrelli, un moggio e mezzo di sale vecchio, quindici travi di castagno, tre capre, uno schiavo di nome Nicoletto, una schiava a nome Sanda con il suo figlioletto chiamato Iacobello. Il Procida possedeva anche terre incolte al Monte di Procida e quindici moggia di terra lavorativa e sedici moggia di terra incoltivata al Monte Miseno, i cui proventi valevano un'oncia all'anno. Quindi il territorio del feudo includeva anche la parte di terraferma di fronte all'isola.

Struttura amministrativa

Oltre al feudatario, Procida, situata nel Giustizierato di Terra di Lavoro e a quei tempi abbastanza popolata, aveva i suoi magistrati: un giudice, un pubblico notaio, due Portolani (funzionari adibiti al controllo dei porti e delle esportazioni e importazioni di merci, soprattutto derrate agricole). Poiché il feudo era stato valutato all'equivalente di una rendita pari a cento once d'oro l'anno il feudatario era tenuto, secondo le consuetitudini, calcolandosi a venti once d'oro il servizio di ciacun cavaliere, a fornire al sovrano cinque cavalieri, includendovi lui stesso. Protestando Tommaso che l'isola richiedeva un notevole dispendio per la sua difesa, Carlo II ridusse l'obbligo di servizio a due cavalieri esigendo però il rafforzamento del castello dell'isola. Alla Curia del re fu riservato il possesso di tutto il lido, rientrante per un tratto di balestra, volendolo il re custodito dagli uomini del suo demanio. Alla Curia stessa, fu iriservato il diritto di esigere le collette (tasse proporzionali al patrimonio), quello di giudicare i reati per i quali fosse prevista la decapitazione, o la perdita delle membra, o l'esilio. L'amministrazione ordinaria della giustizia era esercitata dal feudatario attraverso suoi funzionari detti camerlinghi.

Tommaso figlio di Giovanni parteggiò con entusiasmo per il partito guelfo e gli Angioini. Combattè in Sicilia con Carlo II contro Federico dal 1299 al 1302 e successivamente con Roberto d'Angiò. Tale era la sua fedeltà che ottenne per tutti i suoi famigliari che avevano militato per gli svevi il permesso di rientrare nel regno. Da Roberto ebbe feudi e doni. Nei suoi diplomi lo definiva Cavaliere, ricco, nobile, potente e grande, signore delle isole d'Ischia, di Procida, e di Capri, suo famigliare diletto e consigliere. Lo nominò anche suo ciambellano. Un episodio ci permette di chiarire i rapporti tra baroni e re in quel particolare periodo del regno meridionale. Tommaso, in occasione del matrimonio di sua figlia Beatrice,nel 1310, obbligò i procidani ad una tassa straordinaria.

Il procidano Giacomo Corriceno e sua moglie Massara si appellarono a re Roberto sostenendo di essere stati forzati al pagamento di ben venti once d'oro e il re ordinò al capitano di Napoli e Pozzuoli un'inchiesta segreta contro Tommaso. L'episodio rivela la grande debolezza della corona nei confronti del baronato. L'inchiesta ordinata è infatti segreta pur in presenza di un abuso manifesto, poichè solo al re, sin dai tempi di Ruggero il Normanno, era concesso di esigere una tassa straordinaria in caso di matrimonio della figlia. D'altra parte non era solo il conflitto con gli Aragonesi a costringere il re a ricorrere alle armi dei suoi feudatari. Nel 22 aprile del 1326 re Roberto emanava un ordine a tutti i conti, baroni e feudatari del regno di Napoli di trovarsi in Napoli in armi e cavalli, in perfetto assetto militare, pronti per passare, alcuni in Sicilia e altri in Toscana a sostegno di Firenze, alleata degli angioini, e minacciata da Enrico VII. Tra questi cavalieri figurava Giovanni di Procida, figlio di Tommaso.


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